A sei mesi dalla morte del figlio, la madre Laura rivela: guardava con fiducia al successo della cura, a cui aveva contribuito, contro l’invecchiamento precoce da cui era affetto
«Sammy diceva sempre che siamo una grandissima squadra. Adesso la squadra vacilla un po’. Siamo rimasti in due e il terzo manca tantissimo. C’è un silenzio assordante». A sei mesi dalla morte del figlio, mamma Laura vorrebbe avere un po’ della sua fede. «Ci ha dato così tanto. Con lui abbiamo imparato a guardare in modo diverso le persone, le cose, a ringraziare per tutto quello che ci circonda, perché per lui veramente la vita era sacra, l’intero creato. Ringraziava di tutto, del mare, delle montagne, del sole, della pioggia, con uno stile francescano, infatti aveva sempre al collo il suo tau».
Sammy Basso era nato il primo dicembre 1995 a Schio (Vicenza), tre settimane prima del previsto. Aveva fretta di nascere, forse sentendo di dover fare tutto velocemente perché, a causa della malattia che lo affliggeva – la progeria di Hutchinson-Gilford – il suo tempo era limitato. «Tredici anni e mezzo era allora l’aspettativa di vita ma, anche grazie all’apporto di Sammy, prima come paziente nella sperimentazione di un nuovo farmaco, poi da biologo molecolare, oggi la vita media supera la seconda decade», afferma papà Amerigo.
Una laurea in Scienze naturali all’Università di Padova, una specializzazione in biologia molecolare, divulgatore scientifico con tante apparizioni televisive, il suo viaggio lungo la Route 66 raccontato dal National Geographic, Cavaliere della Repubblica. Sammy era un catalizzatore. «Ovviamente siamo sempre stati molto fieri di lui – dice Laura -. Ma per noi era semplicemente nostro figlio con il quale io e mio marito avevamo un rapporto speciale. Io anche molto di contatto, con baci e abbracci. E poi parlavamo tantissimo di tutto. Lui non aveva segreti, non aveva filtri, era sempre preparatissimo, brillante».
«Da scienziato era consapevole della sua condizione
Ripeteva che non studiava per sé,
ma per gli altri,
perché sapeva che il suo corpo
era ormai troppo compromesso
Ma programmava
lo stesso a lungo termine»
Laura e Amerigo si incontrano da giovanissimi. Una serata in discoteca. «L’ho conosciuto e non ci siamo più lasciati. Io 22 anni, lui 25. Capii subito che era l’uomo giusto per me. Ci siamo sposati il 23 ottobre 1993, con una “clausola matrimoniale”». «Che, se avessimo avuto un figlio maschio, si sarebbe chiamato Sammy», dice Amerigo. Sammy che si pronuncia come si scrive. «Certo. Mio figlio lo ribadiva in continuazione – aggiunge -. Da giovane abitavo vicino a una signora che aveva un figlio che si chiamava Samuele. Lei però lo chiamava Sammy, e lo chiamava in un modo così dolce, così armonioso, quasi musicale, che di quel nome mi sono innamorato».
Laura rimane incinta. «Nasce Sammy. Gioia grande. La prima avvisaglia che qualcosa non andava fu un ristagno di liquidi, poi riassorbiti, tanto che la preoccupazione venne meno. Ma a sei mesi il bambino ebbe un rallentamento della crescita, sia statuale che ponderale. Mangiava, ma non cresceva. I medici non capivano. Finché un giorno il pediatra ci consigliò una visita morfologica genetica. “Vostro figlio ha la progeria”, ci disse la genetista, che si ricordava della foto di un bambino che aveva visto sui libri dell’università. D’accordo. Ma che cos’è? Chiesi. “Invecchiamento precoce. Godetevi vostro figlio finché ce l’avete”».
Laura e Amerigo sprofondano in un incubo. «Quella diagnosi fu una coltellata al cuore. Eravamo sconvolti. Non so neppure come siamo riusciti a tornare a casa – dice Laura -. Nei giorni successivi non sapevamo cosa fare. La paura prese il sopravvento. Tenevamo Sammy dentro una campana di vetro. Ma lui, che è sempre stato un bambino intelligente, ci fece capire che quell’atteggiamento iper protettivo era sbagliato. Cercavo di nascondermi quando piangevo, ma lui se ne accorgeva. Si avvicinava e mi diceva: “Mamma, mi fai un sorriso?”».
Da quel momento tutto cambia. I genitori accompagnano Sammy in una vita il più normale possibile. «Non ha mai avuto un momento di debolezza. Non si è mai alzato con la luna storta, neppure quando stava male durante la notte. Mai nessuna lamentela. Era sempre allegro. Si guardava allo specchio, ma non si è mai chiesto perché sono così, perché non cresco, perché ho difficoltà a correre. Anzi. Lui diceva sempre: “Per fortuna siamo tutti diversi, ed è questa la normalità”».
La crisi arriva, ma non è legata all’adolescenza, bensì a un tentennamento nella fede. «Era profondamente credente e quindi la sua condizione era per lui volontà di Dio. Quando da Boston ci proposero la terapia sperimentale, per lui era un po’ come andare contro questa volontà. In quel periodo si definiva ateo. Si mise a studiare le altre religioni per poi comprendere appieno la sua appartenenza a Gesù e che il Signore usa le mani dei ricercatori per far guarire le persone». Passata la crisi, si mette a disposizione della ricerca. «E noi con lui. Io – aggiunge Laura -, che ho sempre avuto paura dell’aereo, ho cominciato a volare la prima volta quando mio figlio aveva quattro anni e mezzo, prima per le visite e poi per accompagnarlo nei suoi tanti viaggi come ricercatore e divulgatore scientifico».
Oggi la famiglia e gli amici di Sammy continuano a supportare la ricerca e a sensibilizzare attraverso l’Associazione Italiana Progeria Sammy Basso APS. «Negli ultimi anni Sammy si era concentrato nella terapia genica. Con l’équipe di Boston aveva indagato la possibilità di usare la tecnica CRISPR-Cas9, che permette di correggere il gene difettoso. Questa sarebbe la cura definitiva della progeria. E la messa a punto è ormai prossima. Sammy ne era felicissimo. Lui, da sempre consapevole della sua condizione, ma anche consapevole che per lui non c’era più tempo perché il suo corpo era troppo compromesso, continuava a ripetere che non studiava per sé stesso, ma per quelli che verranno dopo», spiega papà Amerigo. «Abbiamo sempre saputo del tempo limitato di Sammy. Ma lui ha vissuto appieno programmando a lungo termine. E io stavo già organizzando il suo trentesimo compleanno…», sospira mamma Laura.
Individuato il gene responsabile. Ora la cura è sempre più vicina
La malattia di Hutchinson-Gilford (Sphg), è una malattia genetica estremamente rara, denominata anche progeria, caratterizzata da un invecchiamento accelerato che si manifesta precocemente nell’infanzia, senza alterazione delle capacità intellettive, con alterazioni di pelle, ossa e sistema cardiovascolare La Sphg colpisce circa un bambino su 8 milioni di nati vivi negli Stati Uniti d’America. In Olanda è stato osservato un numero di nuovi casi pari a 1 su 4 milioni di bambini nati vivi. È una malattia progressiva che causa un rapido invecchiamento sin dai primi anni di vita. Di solito alla nascita i bambini non presentano alcuna manifestazione della malattia, e solo successivamente, durante il primo anno di vita, cominciano a vedersi i primi segni e sintomi quali, ad esempio, lo scarso accrescimento e la perdita dei capelli. La maggior parte dei bambini muore a causa di malattie tipiche degli anziani, quali problemi cardiaci o vascolari cerebrali. L’aspettativa media di vita per un bambino con SPHG è di circa 13 anni, sebbene alcuni possano raggiungere i 20 anni o più. Vi sono altre malattie ereditarie caratterizzate da invecchiamento precoce (progeroidi) che si manifestano con disturbi simili alla SPHG ma se ne differenziano per i meccanismi che ne sono alla base. Tra queste figurano la sindrome progeroide di Nestor Guillermo, la sindrome progeroide atipica, la sindrome progeroide con ipolasia mandibolare e sordità, la sindrome di De Barsy, la sindrome progeroide congenita, la sindrome di Wiedemann-Rautenstrauch, la sindrome di Werner e la sindrome di Cockayne. Non esiste una terapia specifica per la sindrome SPHG, tuttavia è necessario diagnosticarla prima possibile per iniziare una terapia di supporto e un’idonea gestione delle complicazioni. La ricerca di possibili cure ha fatto enormi passi in avanti dal momento in cui è stato identificato il gene responsabile della malattia.
Fonte: Romina Gobbo | Avvenire.it