Il programma del «Reach education fund» per bambini rimasti soli. «Visto il numero di decessi, abbiamo cominciato a pensare a cosa fare. I finanziamenti arrivano dalla diaspora palestinese»

Le istruzioni per compilare i moduli online sono tra le più tristi e dolorose mai viste, con le caselle per inserire la data di scomparsa del padre e quella della madre, per caricare i due certificati di morte e per confermare di avere perso anche tutti i fratelli e le sorelle. Cioè di essere rimasto l’ultimo in vita della famiglia. Il programma di aiuti si chiama “Unico sopravvissuto” e sostiene bambini e ragazzi under 18 orfani di tutti i componenti del loro nucleo familiare a seguito della guerra in corso a Gaza. Oltre quattrocento candidature sono arrivate solo nella prima settimana al Reach Education Fund che l’ha lanciato l’8 aprile. È un’organizzazione no profit con base a Chicago fondata da Walid Mizyed, cittadino statunitense di famiglia palestinese. «Per nove anni ci siamo occupati solo di istruzione e borse di studio per ragazzi palestinesi talentuosi, ma dall’inizio del conflitto abbiamo fornito a Gaza aiuti di emergenza, cibi caldi, acqua, tende» racconta. «Visto il numero di decessi, abbiamo cominciato a pensare a cosa fare per gli orfani. I finanziamenti arrivano dalla diaspora palestinese, soprattutto da quella negli Stati Uniti, ma riceviamo donazioni da tutto il mondo» prosegue il fondatore e direttore. I beneficiari avranno un supporto mensile di 200 dollari a lungo termine. « A contattarci sono nonni o zii, a cui richiediamo che abbiano la tutela legale. I certificati di morte vengono forniti dagli ospedali». Fra le richieste di informazioni arrivate online c’è quella per due fratelli di meno di sei anni, Yamen e Zein Totah, che hanno perduto padre, madre, sorella, nonna e zii per un attacco israeliano su un ospedale a Gaza City. «Per gli orfani che hanno ancora fratelli apriremo un programma diverso, successivo. Sfortunatamente non possiamo ampliare i requisiti, come per questo caso, perché saremmo sommersi dalle richieste», spiega il direttore. Gli chiediamo se negli Stati Uniti stia incontrando problemi a lavorare su progetti di sostegno a Gaza, in un periodo in cui la partecipazione ad attività pro-Palestina sta provocando atti di repressione, ad esempio la revoca di visti a studenti e accademici stranieri. «Percepiamo un po’ di pressione», dichiara il direttore Mizyed. «Tre settimane fa, l’istituto bancario che utilizziamo da undici anni mi ha informato che chiuderà il nostro conto. È già successo per altre organizzazioni musulmane, sembra che la banca lo faccia se il governo avvia un’indagine. Ci sentiamo sotto esame, osservati, ci aspettiamo di venire passati al microscopio, ma siamo anche certi che il lavoro che svolgiamo sia conforme alle leggi degli Stati Uniti. Facciamo tutto legalmente». È convinto che la stretta nei confronti degli attivisti sia solo l’inizio di «una campagna per intimidire chi si oppone agli interessi americani». E prosegue: « Il lavoro che svolgiamo nella Striscia con cibo, aiuti, tende è indubbiamente contrario alla politica estera degli Usa. È come se lavorassimo contro il governo. Trump ha detto che vuole ricollocare i gazawi fuori da Gaza. Presto perseguiterà anche le organizzazioni benefiche americane che sostengono il nostro popolo in Palestina, non perché siano illegali, ma perché il loro sostegno umanitario è un modo per rafforzare la resilienza della popolazione, in aperta contraddizione con la politica estera americana». A prescindere da ciò che Trump tenta di fare, aggiunge, «credo che il sistema giudiziario americano non gli permetterà di mettere sotto sequestro la Costituzione e la legge. Se aiutare dei bambini mi rende illegale, sono pronto a correre il rischio e ad accettare le conseguenze».

Fonte: Francesca Ghirardelli | Avvenire.it