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Perché Cristo, prima di risorgere, è sceso negli inferi?

Lo dice il Simbolo degli Apostoli: il terzo giorno risuscitò dai morti, ma prima “discese agli inferi”. Un fatto di cui abbiamo smarrito il senso

La fede cristiana non si è mai sottratta al desiderio di affermare la totalità ultima e definitiva della redenzione portata a compimento da Cristo attraverso il dramma della passione culminato nel prodigio della risurrezione.

Le stava a cuore far percepire che lo splendore luminoso dell’evento di Pasqua è stato il frutto dell’irradiazione di una carità senza limiti che ha investito la realtà globale del mondo, producendo il salto di una svolta da cui non si può più tornare indietro.

E per rimarcare al massimo grado la novità rivoluzionaria del risanamento dell’essere generato dal sacrificio di Cristo, si introdusse fin dall’inizio la convinzione che la risalita del Redentore dal buio opprimente della morte avesse richiesto come tappa obbligata il passaggio attraverso la desolazione estrema: quella del contromondo negativo dominato dalla sofferenza dell’essere estromessi da una salvezza piena e allo stesso tempo perenne.

Certamente Cristo “tertia die resurrexit a mortuis”, come proclama nella sua sintesi asciutta il Simbolo degli Apostoli. Ma prima ancora: “descendit ad inferos”. Questo contraccolpo clamoroso acquistava tutto il peso della sua potenza trasformatrice mettendolo in tensione con lo sprofondamento nel suo esatto contrario che lo aveva preceduto.

Il trionfo di Cristo era reso ancor più stupefacente dal fatto di essere scaturito insieme al suo lasciarsi condurre nella vertigine della più abissale distanza dalla condizione divina, per poterle offrire un riscatto esteso a tutti coloro che, già dal primo avvio della storia del mondo, non avevano rifiutato in modo irrimediabile l’amicizia con il Creatore e Signore del mondo, pentendosi, se necessario, per i loro errori.

Nel corso dei secoli, la coscienza religiosa ha cercato di fissare i contorni precisi di questo duplice movimento: da una parte, di umile disponibilità a calarsi nella insoddisfazione del bisogno di salvezza dell’uomo del cosmo antico, e dall’altra, in senso contrario, di incontenibile sprigionamento di una forza di riconciliazione capace di restituire alla prigione della morte strappata dalla visione di Dio l’abbraccio di una misericordia proiettata nella dimensione dell’eterno.

Si rese necessario elaborare un immaginario carico di inventiva, che poi ha trovato il modo di riversarsi nella visibilità delle sue raffigurazioni sensibili, come si registra con chiarezza nel linguaggio dell’arte a partire quanto meno dalla fase del più maturo Medioevo.

Un esempio altamente eloquente di questi sviluppi è offerto dalla mirabile Maestà senese di Duccio da Buoninsegna: 1308-1311. Nella serie dei riquadri sulla vita di Cristo che componevano il lato posteriore della pala, la formella delle tre Marie accorse al sepolcro dove incontrano, davanti alla tomba scoperchiata, l’angelo in vesti bianche messaggero dell’avvenuta risurrezione si accompagna alla scena del Risorto che irrompe nel regno oscuro delle porzioni più infime dell’universo con l’abito di gloria risplendente di riflessi dorati. Impugna l’asta sormontata dalla croce e da uno stendardo agitato dal vento, segni allusivi della conquista di un nuovo approdo alla vita ormai già sul punto di essere manifestato.

Il piano in cui si ambientano i due episodi tra loro in sincronia è ovviamente dislocato su livelli distinti: le pie donne si muovono tra le rocce aspre dei dintorni del Golgota, mentre l’incursione di Cristo nell’aldilà delle pene che fanno soffrire si compie nelle cavità del sottosuolo terrestre, sede dei diversi spazi chiusi per contenere le moltitudini dei defunti disegnati dall’escatologia tradizionale. Cristo, vincitore della morte e del male derivati dalla disobbedienza superba dei progenitori, abbatte la porta che rinserrava le fortezze presidiate dalle creature diaboliche, rovesciandone le ante sopra il diavolo messo di guardia, che ne rimane schiacciato.

Di fronte a Cristo Salvatore si apre la buia voragine di un antro identificabile con il Limbo dei patriarchi dell’Antica Alleanza, da cui si protendono in avanti, commosse e imploranti per il miracolo che si sta verificando, le figure centrali della storia della salvezza.

In testa alla folla che si assiepa sul limitare del regno dei morti, davanti a Cristo si inginocchiano proprio Adamo ed Eva, rappresentati come vegliardi appesantiti dagli anni, con accanto il re Davide che tiene in mano il libro dei salmi, tesoro della pietà del popolo eletto. Cristo risponde di slancio all’appello di chi vede prossima la fine di una secolare reclusione: tira a sé con il braccio il primo dei suoi interlocutori, cioè il ribelle Adamo, prototipo di tutti i viventi, e così spalanca all’intero genere umano la possibilità di ascendere alla gioia della beatitudine paradisiaca.

Scene in tutto simili verranno riproposte in ogni contrada della cristianità ancora a lungo sul filo del tempo, in Italia per opera di Andrea Mantegna, di Sebastiano del Piombo, di Domenico Beccafumi, di Tintoretto e tanti altri. Ogni artista aggiungerà il tocco del suo estro individuale: per esempio facendo discendere Cristo nel ventre della terra passando sui gradini di una scala, mettendogli al fianco la figura del buon ladrone, con la croce del supplizio che gli ha garantito l’accesso alla felicità praticamente immediata del cielo, oppure drammatizzando in senso bellicoso l’ostilità delle creature demoniache sconvolte dall’ardita intromissione del Figlio di Dio nei meandri del loro dominio alternativo alla luce del sommo bene divino.

Al di là dei dettagli variabili, il motivo di fondo rimaneva incentrato su una sicura attestazione di fede: l’onore reso alla risurrezione di Cristo coincideva con l’idea di un destino di compiuta riabilitazione promesso come esito da tutti sperimentabile, una volta entrati in contatto con la grandezza smisurata di una grazia in grado di dispensare il perdono che ridonava la vita. Solo dal Seicento in poi l’accentuazione in senso emotivo di queste rappresentazioni dei paesaggi dell’oltremondo cominciò a perdere di credibilità e l’iconografia dell’arte europea cominciò a farsi sempre più “razionalizzata”.

Ma come documenta il pregevole volume di Matteo Al Kalak, Fuoco e fiamme. Storia e geografia dell’inferno (Einaudi, 2024), i fondamenti di un discorso largamente condiviso sui misteri delle “cose ultime” si erano ormai diluiti nella costruzione del sapere teologico, nella letteratura edificante di largo consumo, nelle forme di espressione di una mentalità religiosa radicata nel sentire di tutto il popolo cristiano.

Solo con l’avanzata della secolarizzazione contemporanea lo sfondo immaginifico delle antiche narrazioni sulla morte di Cristo e sull’itinerario attraverso cui si era attuata la sua risurrezione ha conosciuto uno svuotamento che lo ha reso sempre più difficilmente riproponibile, mentre più forte è stata la persistenza delle concezioni tradizionali nel contesto dell’Oriente ortodosso, fedele al tema dell’“anastasi” con il Cristo risorto disceso nel Limbo che afferra per le braccia i due progenitori, capifila degli antichi padri in attesa della redenzione, e li risospinge verso l’alto, nell’atto di ergersi vittorioso con i piedi piantati sopra le lastre di copertura dei loro sepolcri rovesciate per terra.

Al di là delle oscillazioni subite nei diversi contesti della cristianità, resta attuale la sfida di una decisa propensione a rimarcare la fisicità oggettiva della redenzione di Cristo vista come chiave di volta di un nuovo ordine innestato all’interno della realtà creata.

Qui lo spirituale puntava a incardinarsi nello spessore più pesante e fino in fondo terrestre dell’esistere del mondo: lo risignificava nelle sue fibre più originarie ed essenziali, accettando di misurarsi, faccia a faccia, con la presa del vecchio potere del Maligno in un “prodigioso duello”, chiamato a dispiegarsi senza sosta in ogni frammento della storia.

Fonte: Danilo Zardin | IlSussidiario.net

 

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