La storia dell’arte cristiana è unica, perché unica è la storia cristiana, cioè la storia di Cristo. Si lascia alle spalle tutta la seduzione dell’arte antica e mette in scena, riscattandola in bellezza, la verità sul cuore dell’uomo e sul cuore di Dio. L’uomo è violento, Dio è buono, come nell’incompiuta Adorazione dei Magi di Leonardo in cui, nella metà alta del quadro, si svolge una cruenta scena di guerra e distruzione. Gli uomini, adoratori di Cristo, sono anche portatori di morte, il cuore che adora è lo stesso che sacrifica l’altro uomo.
L’arte cristiana mette in scena la strage degli innocenti, grande risposta storica a tutti coloro che, troppo comodamente, giustificano la non esistenza di Dio a partire dalle stragi. Proprio la venuta del bambino-Dio indifeso smaschera subito la violenza degli Erode di tutta la storia, sacrificatori di innocenti in nome del potere e del dominio, tecnico, politico, sociale, economico… La vicinanza di Dio scatena la violenza dell’uomo perché la smaschera, senza per questo privare l’uomo che continua a fidarsi della compagnia di Dio. Per questo l’arte cristiana ha nella sua faretra una galleria di immagini straordinarie, soprattutto Madonne con il Bambino, che gettano piena luce, nel momento in cui narrano la scena più dolce della vita umana, sull’orrore della violenza dell’uomo, violenza resa evidente proprio perché l’uomo senta il bisogno di essere salvato. Non fuga di vinti nell’aldilà per dimenticare l’aldiqua, secondo l’accusa di Nietzsche, ma al contrario smascheramento proveniente dall’aldilà proprio per farci aprire gli occhi sull’aldiqua, per essere raggiunti nell’aldiqua da un principio che lo trasforma in e attraverso di noi.
L’arte cristiana racconta e rappresenta il dolore della vittima, sacrificata per ragioni senza ragione. Una bellezza scavata nell’abisso di tenebra del cuore dell’uomo, da cui zampilla l’acqua pura della grazia trasformante dell’assolutamente buono. Ho scelto tra queste immagini una che amo particolarmente e che si sposa bene con la festa della Madre di Dio. La Madonna greca di Bellini, conservata a Brera. Operando a Venezia, Bellini conosceva bene la tradizione iconografica bizantina, di cui riprende la composizione generale del quadro ma in una nuova sintesi originale. All’oro dello sfondo sostituisce una più quotidiana tenda nera, che ha il compito simbolico di rappresentare il trono delle Madonne di tradizione occidentale, ma serve primariamente a far risaltare le figure come se uscissero fuori dal quadro, fino a toccare non solo gli occhi ma anche il cuore dello spettatore. Bellini muta la fissità frontale delle icone in umanissimo sguardo malinconico di tre quarti, che dà tutto il senso della drammaticità della storia che sta raccontando, quasi che i soggetti del quadro non riescano a guardare negli occhi l’artefice di ciò che accadrà a quel bambino: noi spettatori, messi sottosopra da un quadro, bisognosi di un’inversione di marcia: la conversione. Il bambino poggia il suo corpo pesante su un davanzale, come se stesse per buttarsi in avanti e l’abbraccio della Madonna lo trattiene come qualsiasi bambino in pericolo. Ma quel bambino è in pericolo, si metterà nelle mani di chi guarda il quadro, uscito dalla sua condizione divina per farsi uomo. Ma grazie a Dio le prime mani che incontra sono quelle di Maria, vestita di blu e rosso, divino e umano si intrecciano: come in una Pietà nascosta, sostiene il corpo del figlio, a cui ha dato la vita e che un giorno terrà esanime tra le braccia. E la croce fa capolino non solo nella malinconia del volto del Bambino, ma anche nel frutto che tiene in mano: Maria è la nuova Eva e Cristo il nuovo Adamo. La malinconia non serve a rendere malinconici noi, ma a portarci dentro uno spazio di consapevolezza che l’evento trascendente della sola icona bizantina non basterebbe a raccontare ad un occidentale.
Si sposano perfettamente trascendenza e quotidianità, divino e umano, Dio entra nella storia e la storia ha la sua malinconia, dovuta alla violenza umana, l’essere peccatori, cioè distruttori dell’opera di fioritura del creato. Eppure possiamo rallegrarci, perché tutta la malinconia della storia se la prende lui, sul suo corpo, sulle sue spalle, sul suo volto. Si prende la tortura e la morte sulle spalle e le tramuta in amore, ribadendo la sua innocenza, ci apre gli occhi ma non ci condanna. Quello sguardo dice: tu sei violento, ma io ti amo, mi rende triste, ma è per trasformare questa tristezza che sono venuto qui, senza di me non puoi fare nulla. È il motivo per cui questi quadri continueranno ad attirare osservatori distratti o inconsapevoli, che vi troveranno quello che forse non sapevano di cercare e che solo il Dio incarnato può offrire: la verità, senza che essa ci schiacci, perché quella verità ha adesso un volto di bimbo. Ma anche di Madre. La violenza è nella nostra vita sotto molteplici forme: dall’invidia per i successi altrui agli sguardi in cagnesco in una coda al supermercato, da un bambino strangolato a un’insegnante che dice al suo alunno “non combinerai mai nulla di buono”, dalla raccomandazione che mette fuori gioco chi merita un posto alla cresta su un prezzo stabilito dalle leggi, dalla femminilità ridotta a gioco degli occhi e del dominio allo scherno verso chi ha un difetto.
L’originalità dell’arte cristiana è l’originalità di Cristo: nel dire il male lo supera, non lo nasconde ma non gli lascia l’ultima parola: neanche il Bambino è solo. Lo tiene saldo la Madre, come dice il monogramma greco ai margini del quadro (MHTHP OEOY, “Madre di Dio”). Non è malinconica come lui, anche se ha già saputo che anche a lei una spada le trafiggerà l’anima, proprio nel momento di massima gioia: la presentazione di quel bambino al tempio pochi giorni dopo la nascita. Dice un proverbio ebraico, che mi ripete spesso mia madre, che Dio creò il mondo e quando vide che non arrivava a tutto creò le madri. È un’intuizione popolare di una verità teologica da far tremare: anche Dio ha avuto bisogno di una madre, per nascere e per resistere alla sua morte. Senza quelle mani di madre nessuno può raggiungere Dio, «sua disianza vuol volar sanz’ali» direbbe Dante: non è forse lei a “costringerlo” ad accelerare i tempi, quando gli uomini non hanno più vino (cioè non hanno più sangue, perché questo viene anticipato a Cana) per far festa. Possiamo cercare quelle mani all’inizio di un nuovo anno, perché la festa non finisca, tutte le volte che non abbiamo più vino.
Fonte: Avvenire.it